365 passi

Noto 17 Agosto 2003
Installazione-Performance di Cristina Papi
Ambientazione Sonora Andrea Ferrara

“L’uomo e le piante mutano e periscono;soltanto il significato e l’essenza delle composizioni con fiori sono eterni. Quando si lavora, è nel proprio intimo che va cercata la forma esteriore.

Quali che siano, i materiali utilizzati sono secondari. Il pensiero è giusto solo se conduce a dio; è in questo che bisogna celebrare il rito. La bellezza unita alla virtù è potente. La sola bellezza è insufficiente; essa può realizzarsi se è associata al sentimento “giusto”. Trattare i fiori con il rispetto che meritano perfeziona la personalità. Governare la propria casa con serenità, padronanza di sé ed equità. Rispettare le leggi e i genitori. Non trascurare nulla, né in casa né sul lavoro. Coltivare l’amicizia con sincerità e devozione.

G. Herrigel “Lo zen e l’arte di disporre i fiori”

In una stanza di circa 25 mq è ricostruito un giardino ideale. A terra, sabbia nera traccia il segno dell’Ikebana. Alle estremità del segno tre piante di orchidee. Sulle pareti in corrispondenza dei vertici, sono disposte tre photo polaroid. Quattro valige chiuse contenenti scarpe sono ordinate al margine della stanza. Suoni e passi attraversano la stanza. Portando con se una valigia l’artista, tolte le scarpe all’ingresso, entra nella stanza e dispone le scarpe sulle linee del disegno. Su alcune paia scrive delle frasi con pennello e china nera. Compiuta la cerimonia, la performer segna e data una piccola valigia che lascerà all’ingresso della stanza uscendo.

Con la performance “365 Passi” Cristina Papi ci guida in una raffinata cerimonia, sintesi di linguaggi inspirati dalla ricerca dell’armonia. Elementi diversi, tra oriente e occidente, si mescolano in un compendio di poesia visiva.
L’opera è un tessuto di citazioni. La cerimonia in primo luogo,sintesi di pensiero orientale, volontà di portare una filosofia di vita nella realtà, attraverso gesti e movimenti del corpo. L’azione tende alla ricerca di una forma in un processo intimamente scultoreo, che ha il suo riferimento diretto nella rappresentazione ideografica del segno, il più antico meccanismo di appropriazione dello spazio. Due elementi compositivi si confrontano: il simbolo, espresso nel segno, traccia lo spazio e regola i confini dell’azione;il tempo, scandisce il gesto e i movimenti. La performance ci invita ad entrare in un vero e proprio giardino della memoria.
L’installazione ricostruisce il giardino ideale: un segno tracciato sul pavimento, tre piante di orchidea, tre istantanee fotografiche alle pareti; queste ultime sono foto polaroid senza negativo: nella memoria, infatti, le immagini si fissano come fotogrammi dalla matrice irrintracciabile. Il rito si compie nel giardino domestico. Seguendo il segno, che ha la sua origine nel triangolo dell’Ikebana, Cristina Papi dispone provocatoriamente la sua collezione di scarpe, realmente portate, come se la memoria fisica degli oggetti potesse guidare a decifrare le molteplici personalità di chi le ha indossate.Un invito a ricercare l’identità propria nelle forme quotidiane. L’accostamento con la poesia visiva sembra più che indicato. Non è un caso che gli elementi di formazione dell’artista siano la letteratura, la musica, il teatro e il disegno. Componenti che nell’arte visiva contemporanea dilatano i confini tradizionali, reclamando un palcoscenico che è la vita stessa. La ricerca dell’artista ha stretti rapporti con il tessuto musicale: l’azione è una partitura che deve essere vissuta.
Nell’installazione non può sfuggire un elemento di vanità, invito a rintracciare l’identità mutevole dell’autore nella memoria dei passi percorsi in infiniti luoghi, in continua metamorfosi di ricordi. Il testo sonoro, elaborato da Andrea Ferrara ne completa il senso: passi che si incrociano e, come percezioni telepatiche,rimandano ad altri suoni. Le scarpe hanno nella loro forma una memoria sonora, a tratti nitida a tratti indecifrabile. Forme si associano ad altre forme, in un giardino inestricabile di direzioni.
Il giardino si trasforma in labirinto della memoria: solo attraverso l’individuazione della traccia compositiva si può uscirne. Il filo di Arianna sta nella scrittura. L’artista, infatti, durante la performance scrive sugli oggetti, li timbra con frasi e versi, una metafora dell’esistenza: il Supremo Architetto ci ha dato la possibilità di segnare il tempo, non di fermarlo.

Prof. Vincenzo Ventimiglia